Il Fondo della Salsa

Una facile escursione che porta al cospetto di un mito della montagna: la Nord del Camicia


Nessuna vetta oggi, nessuna cresta panoramica e nemmeno un lungo percorso da intorpidire le gambe, solo una ricerca di forti emozioni davanti ad una delle pareti che hanno fatto la storia dell’alpinismo sugli appennini, una ricerca curiosa e timida delle motivazioni che hanno spinto, non molti temerari a dire il vero, a salire la mitica parete nord del Camicia, non a caso definita l'Eiger dell'Appennino. Poco dopo Castelli, in località San Salvatore, poco prima di Colle Rustico nei pressi di un curvone si inoltra nel bosco una carrareccia dove inizia il sentiero 245, sulla carta di riferimento utilizzata Gran Sasso d’Italia 1:25.000 delle Edizioni Il Lupo; poche decine di metri prima sulla sinistra parcheggiamo l’auto in un comodo piazzale, quota 800 mt circa. Dal piazzale del parcheggio, sopra la fitta cupola del bosco, pallida nel contrasto del controluce si defila la seghettata, ruvida, grigia e verticale cresta della mitica parete, l’imbuto, l’abisso per ora è celato. I sentiero scorre a tratti agile, a tratti sconnesso su di una carrareccia ad uso dei boscaioli, mai troppo ripido ma sempre costantemente in salita; dopo una quarantina di minuti si oltrepassa un fosso, la località è Fosso Morto a quota 887 mt, un paletto segnavia qualifica un punto qualsiasi tra gli alberi. Ancora 20 minuti di bosco, stesso andamento del percorso e si arriva a Fonte dei Signori, non c’è nessuna fonte, l’acqua si sente scorrere lontana. Dalla segnaletica occorrono altri 20 minuti per uscire dal bosco, la carrareccia termina e si restringe, nei pressi di un grosso masso sul quale una freccia evidente indica la direzione del sentiero che attraversa il fosso Leomogna. Ora si è allo scoperto, la valle si apre verso quello che è il Fondo della Salsa e verso quell’enorme, verticale muro che è la famosa e terribile parete Nord del Camicia. E’ il primo contatto, siamo ancora lontani ma già tanto basta per capire l’austerità di questa montagna. Non faccio però caso alla freccia sulla grossa roccia posta nella boscaglia alla nostra sinistra, alcune tracce evidenti mi portano a seguire un sentiero ora timido ora marcato all’interno dell’alveo del fosso; grossi massi rovinati a valle formano il greto quasi asciutto, divertente e facile è saltare da un masso all’altro ed avanzare in salita. Non sempre l’acqua affiora, per alcuni tratti si perde tra le rocce, scorre e gorgoglia ma scorre sotto. Poi improvvisamente riemerge, forma ora cascatelle ed ora limpidi laghetti per tornare a sparire poco dopo. Ormai è un mare di roccia, intorno e di fronte, ci chiediamo se sia giusto e logico che il sentiero scorra all’interno del fosso ma alcuni segnavia proprio sui roccioni del greto ci fanno rassegnare. In ogni caso e senza troppe difficoltà si avanza, si sale, la grande parete è sempre più incombente. Il Fondo della Salsa è una testa di valle che va stringendosi verso la parete, là, sotto tanta verticalità, dove iniziano le diverse vie di approccio alla parete stessa, tutte estremamente alpinistiche, uno sporco nevaio resiste ancora nonostante la torrida stagione. Vasto e poco spesso forma una caverna gocciolante, un antro buio, umido e freddo, un tunnel a dire il vero perché dall’entrata si intuisce un filtrare di luce ed uno stretto foro qualche decina di metri più in alto. All’interno scorre il rumoroso ruscello formato dal lento gocciolio dello scioglimento del nevaio, una cascatella sull’uscita dell’antro è la sorgente del fosso Leomogna. Il nevaio e l’antro che ha formato, il sinistro gocciolio della volta insieme al buio minaccioso dell’ambiente distraggono per qualche momento dalla parete Nord; quando la natura ti sorprende occorre lasciarsi trasportare. Provo ad entrare nella grotta di ghiaccio, assaggio la volta con un bastoncino, è dura, ghiacciata, lo spessore è minimo forse reggerebbe i peso di una persona, ma è l’alito freddissimo dell’antro che smonta ogni velleità di perlustrazione ulteriore. Sono bastati pochi minuti per gelarsi, è incredibile quale vento freddo si riesca a sprigionare da un’ambiente simile. La parete, la famosa Nord del Camicia è tutta là sopra, non basta alzare lo sguardo, serve proprio alzare la testa per vederla tutta, è un immenso abisso, alto 1200 m e largo quasi 2 km. Non si riesce ad osservarla in tutta la sua interezza, solo da lontano è possibile farlo. Affascina, attira e respinge contemporaneamente, fa tremare il cuore, è qualcosa che non ha filtri di comparazione per chi come me non è un alpinista. Anche la macchina fotografica, estensione dei nostri sensi, illusivo acchiappasogni, fatica ad inquadrare tutta questa vastità. Eppure quella parete là sopra è stata teatro di innumerevoli imprese, è stata ripetutamente violata; viene il ribrezzo a pensarlo e anche se non sono stati moltissimi gli approcci, si vanno ripetendo anche ai giorni nostri. Il dislivello notevole, i lunghi tratti di roccia friabile, i muri verticali di erba, le assicurazioni aleatorie se non impossibili hanno fatto della Nord del Camicia l'Eiger dell'Appennino. Nel 1927 Ernesto Sivitilli e Bruno Marsili annunciarono di aver salito la parete, in verità salirono molto a destra su difficoltà modeste, non venne mai considerata una vera prima, la parete verticale era rimasta inviolata. Venne invece violata nel ’34 dalla cordata Marsilii-Panza, due aquilotti di Pietracamela, fu un vero capolavoro dell'alpinismo ed ancora oggi viene considerata la via classica. Colpisce la storia di questa prima assoluta, fu accolta con incredulità dai paesani di Castelli, che consideravano la Nord una cosa propria e inviolabile. Per questo motivo, due anni dopo, i due tornarono a ripetere la via e lasciarono sulla parete una vistosa giacca rossa visibile dal paese (La maglia rossa sulla Nord del Camicia è il titolo del film che Fernando Di Fabrizio alpinista e naturalista di Penne ha dedicato all’impresa e a questa montagna). Fu un'impresa eccezionale per quei tempi, tanto che dovettero passare più di trent'anni prima che qualcun'altro tornasse a cimentarsi sulla via. Da allora le ripetizioni o nuove salite furono poche, ad oggi solo 21, compresa la prima invernale del 24 Dicembre ’74, finita però in tragedia, in cui Piergiorgio De Paulis, in cordata con Domenico (“Mimì”) Alessandri e Carlo Leone perse la vita. Vale la pena raccontare sommariamente questo episodio, per certi versi storico. Piergiorgio De Paulis dopo una prima giornata priva di ostacoli, nell’atto di assicurarsi in parete per il bivacco si era assicurato ad un chiodo conficcato in una fessura; nell’atto di conficcare un secondo chiodo di sicura, purtroppo più grosso e purtroppo nella stessa fessura precedente, fece dilatare l’ancoraggio tanto da perdere l’incastro del primo chiodo; cadde inevitabilmente nel vuoto. Il giorno successivo, dopo un bivacco al limite della sopportazione per la tragedia avvenuta, Carlo Leone si infortunò nel tentativo di discesa; Alessandri in preda ad una logica follia considerò come unica possibilità di salvarsi quella di continuare verso l’alto. Si compì così la prima storica salita invernale. E non è finita; Mimì, una volta in cresta si adoperò per attivare il soccorso per il compagno rimasto in parete; ed anche questo episodio fu alla sua maniera una prima; per la prima volta in Appennino venne usato un elicottero per un soccorso in parete, ed anche questo viene ricordato come una vera impresa. Il tenente Fischione, pilota dell’elicottero, non aveva esperienza di quel tipo di salvataggi, ma compì una manovra, per quei tempi al limite, e recuperò col verricello Carlo Leoni. Si andava costruendo il mito di questa parete. Ad oggi tra le 21 cordate che si sono cimentate nell’impresa vanno ricordate la prima solitaria del 1982 portata a termine dall’ascolano Marco Florio, e la ripetizione invernale del 1987, la cordata composta dai fortissimi, anche loro ascolani, Tiziano Cantalamessa e Franchino Franceschi, dopo tre successivi sopraluoghi la salirono, con un bivacco in parete, il 22 e 23 Dicembre, ad accoglierli al ritorno c’era Mimì Alessandri, ed il paese di Castelli in festa; un capolavoro “moderno” ed ancora considerato al limite delle possibilità è stato portato a termine nel ’99 da Ezio Bartolomei e Roberto Iannilli, una via nuova, Vacanze romane, ancora senza successive ripetizioni; la solitaria invernale arriva nel 2008 ad opera del fortissimo Andrea Di Donato, in sole cinque ore e mezza è uscito in cresta. Poco tempo fa, quest’estate il nostro Iurisci è salito lungo uno spigolo di questa parete fino ad uscire in cresta, la parete è viva, desta ancora un mare di interesse in chi è capace di affrontarla, d’estate soprattutto, quando è più semplice approcciarla. La storia alpinistica di questa parete è stata scritta, come si diceva, da pochi protagonisti. Da lì sotto il pensiero corre all’'altra "paretona" che è poco lontana, la orientale del Corno Grande, ed il confronto è inevitabile; dipende ovviamente dai punti di vista, forse la Nord del Camicia è più cupa e impressionante, per via dell'esposizione, per la forma concava, per via della lunga parete che continua e che fa diventare l’ambiente un enorme incombente anfiteatro. C’è silenzio tra me e Marina, il naso è sempre all’insù e i nostri pensieri sono confusi, vagabondano in mezzo a valanghe di sensazioni contrastanti. E’ difficile per degli escursionisti come siamo trovarsi al cospetto di un tempio dell’alpinismo, essere dominati, quasi sovrastati e intimoriti da quel muro verticale che non finisce mai. Io, che mi trovo lì sotto da semplice camminatore che sono, cerco le linee di salita che hanno usato Marsili e Panza, quella linea che tante volte ho visto stampata su una foto; forse riesco ad intuire i primi approcci, forse mi illudo di farlo, ma subito mi perdo nella vastità della parete e nel vuoto ancora più inconcepibile della mia riluttanza all’idea che ci si possa trovare appiccicati da qualche parte in quel mare di roccia, come se non bastasse anche notoriamente marcia. Ma la paura come sempre è un contenitore che ha molte facce di contorno; la prima, che ti fa sentire il cuore che batte è la repulsione per qualcosa di inconcepibile, poi l’ostinazione che ti porta a cercare di capire, la fa sconfinare verso una eccitante attrazione. Degli uomini come noi salgono, sono saliti su quell’indefinito ambiente. Come si inizia l’approccio a queste pareti? Leggi, ti documenti, segui la letteratura consolidata, applichi tutte le tecniche e le conoscenze, poi basta spostarsi di un metro lungo la parete e si inizia un capitolo completamente nuovo. Impossibile correre dietro ai pensieri a all’ammirazione che si prova davanti a quest’angolo di natura e davanti alle imprese (apparentemente) impossibili di chi ha osato e vinto questa parete. Insomma si finisce per rimanere smarriti, tutto è troppo, parafrasando Baricco, c’era troppa roccia, troppa altezza, troppa verticalità, non c’era una fine. Cercando di memorizzare creste e colatoi, sfaciumi e segni di cengie, soprattutto provando a memorizzare le tante emozionanti domande, nonché sensazioni di ansia che sono sorte nella nostra breve sosta al cospetto di questo muro riprendiamo la via del ritorno; sulla sinistra orografica del fosso scorgiamo un sentiero (come detto all’andata lo abbiamo mancato) che fila ben marcato alto sul greto roccioso del Leomogna; ancor prima di abbassarsi troppo ed entrare nel bosco su una grosso masso, quasi posto come un simbolico altare sotto la famosa Nord, scorgiamo due targhe ricordo ed alcuni cimeli storici (attenzione facili da scorgere se si sale in discesa possono scappare alla vista); le targhe riguardano Piergiorgio De Paulis, come abbiamo detto perito nel ’74 durante il primo tentativo di ascensione invernale, i suoi cimeli sono alcune corde e qualche moschettone arruginito, e Marco Adinolfi giovane pilota dell'aeronautica schiantatosi sulla parete con il suo cacciabombardiere nell'aprile del '94, ci sono alcuni rottami dell’aereo raccolti sotto la targa. Contribuiscono non poco a creare distanza verso “questa” montagna, ancora di più, e non ce ne era il bisogno, si avverte l’unicità di questa parete; è roba per pochi ma è comunque bello salire fin qui per rendersene conto. Riprendiamo a scendere, si entra nella boscaglia e si esce più volte, qualche segnale bianco rosso a confermare la direzione ma davvero non se ne avverte il bisogno, il sentiero marcato, le colline teramane giù in fondo e la stretta valle non danno altre possibilità di discesa. Si attraversa il fosso Leomogna nel punto in cui all’andata ho raccontato che ci siamo sbagliati, mi rendo conto che l’errore è veniale, il tratto che attraversa il fosso, tra rocce e sabbia è davvero poco marcato, è la freccia bene a vista che deve incuriosire durante la salita per trovare il percorso giusto. Attraversato il fosso, ora quindi sul sul suo lato destro, si riprende la carrareccia dell’andata, meno di un’ora per arrivare al parcheggio. Come tante volte accade non sono le cime a parlare di montagna, sono le valli, sono i boschi, sono i pratoni e le cengie in quota, sono gli ambienti montani che per quanto ostili hanno ospitato uomini; sono questi gli ambienti che hanno lasciato segni da tramandare alla storia e che contribuiscono tutt’oggi a tenere in vita la storia stessa e a volte anche la leggenda della montagna. Questa breve escursione, se non si indugia si va e si torna in tre ore, per gli alpinisti è un veloce avvicinamento all’impresa che stanno cercando di costruire, per chi come noi è un camminatore escursionista è una lezione di montagna, una “mistica” leggera salita verso uno dei luoghi più “leggendari” e proibiti dei nostri Appennini.